Pubblichiamo uno stralcio della Lectio, che ringraziamo per la gentile concessione l’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuan, pronunciata dall’arcivescovo Giampaolo Crepaldi a Budapest il 22 maggio scorso al Convegno internazionale su “Caritas in veritate: The social teaching and ecological thinking of Pope Benedict XVI”. Il convegno è stato organizzato dall’Università Ludovika, dalla Pázmány University e dal Ministero della tecnologia e l’industria. Alla sessione di apertura era presente il cardinale Péter Herdo, Primate di Ungheria. Il titolo originale della lezione era il seguente: “The ecological teachings of Pope Benedict”
Presentando, all’indomani della pubblicazione dell’enciclica, gli aspetti centrali della Caritas in veritate, avevo indicato la sua chiave di lettura nell’espressione “il ricevere precede il fare”[1], espressione cara a Joseph Ratzinger fin dal suo libro “Introduzione al Cristianesimo”. Tutta l’enciclica mi era sembrata, e mi sembra tuttora quando la riesamino, sotto la guida di questo principio. La responsabilità è una risposta ad una vocazione, i diritti presuppongono i doveri (n. 43), l’etica sociale dipende dall’etica della vita (n. 15), l’uomo non è frutto del caso o della necessità (n. 29), la prassi implica una dottrina (n. 30), la verità va intesa come dono (n. 34), il mercato non è in grado di produrre da sé i presupposti di cui ha bisogno (n. 101), il rispetto dell’ambiente presuppone il rispetto del diritto alla vita (n. 51). Questi punti, insieme ad altri che qui ho tralasciato, confermano la nostra chiave di lettura: se la realtà, e con essa la natura, non è considerata come qualcosa di ricevuto, che ci interpella come una vocazione, che esprime dei fini che diventano criteri di vita e di azione, se non è così … allora la questione ambientale non ha soluzione perché a nostra disposizione non rimarrebbe che una visione strumentale.
I concetti che ho ora anticipato si trovano egregiamente espressi nel seguente passo della Caritas in veritate: “Questo [l’ambiente naturale] è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera. Se la natura, e per primo l’essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura il credente riconosce il meraviglioso risultato dell’intervento creativo di Dio, che l’uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni – materiali e immateriali – nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l’uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della natura, frutto della creazione di Dio”.[2]
Permettetemi alcune sottolineature di questo interessante passaggio dell’enciclica. Benedetto XVI afferma che il creato è stato dato da Dio “a tutti”. Questo punto riverbera il principio della destinazione universale dei beni. Poi dice che questo comporta una nostra responsabilità, vale a dire che l’uomo non deve rimanere inerte e limitarsi a “conservare” la natura ricevuta, ma deve operare in essa con responsabilità, metterla a frutto, svilupparne le potenzialità: “All’uomo è lecito esercitare un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate”[3]. Non si tratta, in altre parole, di distribuire il creato fettina dopo fettina, ma bisogna lavorare la natura, intervenire su di essa, antropizzarla. Questa impostazione appartiene alla tradizione della Dottrina sociale della Chiesa che qui viene riconfermata. Volentieri sottolineo questo tratto perché l’ecologismo ideologico di oggi giunge a condannare qualsiasi intervento dell’uomo, considerandolo come rapace di per se stesso, e sogna una natura incontaminata dalla presenza umana. Questa posizione è propria soprattutto delle correnti che promuovono la cosiddetta “decrescita felice” che la Caritas in veritate esplicitamente condanna, dicendo che “L’idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell’uomo e in Dio”. [4] Le errate impostazioni del problema teologico consistono sia nell’assolutizzare l’intervento tecnico dell’uomo, sia, al contrario, nel “vagheggiare un’umanità tornata all’originario stato di natura”.[5] Mi si permetta di aggiungere, a questo riguardo, un’altra fuggevole osservazione. Nell’ambito del Sinodo dell’Amazzonia abbiamo sentito vari interventi che vagheggiavano lo stato primitivo del rapporto tra l’uomo e la natura e che auspicavano un incontro del cristianesimo con quelle culture, pur se caratterizzate dall’animismo e dal paganesimo che mantenevano schiavi gli uomini nelle loro paure. Sappiamo che Benedetto XVI ha sempre presentato il cristianesimo come la religione del Logos e non del mito. Il suo magistero, quindi, non concede granché a queste interpretazioni. Egli, sempre nella Caritas in veritate, ha anche detto che “è contrario al vero sviluppo considerare la natura più importante della stessa persona umana. Questa posizione introduce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo”.[6]
Utilizzando questo ultimo spunto, possiamo esaminare un altro importante aspetto della visione di Benedetto XVI della questione ambientale. Come è noto, molte correnti dell’ecologismo ideologico, che solitamente vengono chiamate “malthusiane” o “neo-malthusiane”, contrappongono ambientalismo e natalità, considerando quest’ultima come il principale pericolo per l’equilibrio ecologico, essendo l’uomo un produttore e un consumatore, quindi una minaccia per l’ambiente e per il clima. Non mi soffermo, tanto sono note a tutti, sulle catastrofiche previsioni che questi circoli hanno formulato e che si sono tutte rivelate false. Ricordo solo che esistono molti movimenti che confluiscono nell’ “eco-terrorismo” e che puntano all’estinzione del genere umano[7]. Del resto, bisogna riconoscere che, nonostante questi eccessi di per sé poco credibili, è molto diffusa una mentalità disposta a ritenere che la diminuzione della popolazione possa creare vantaggi per la salute dell’ambiente.
Benedetto XVI si contrappone decisamente a questa impostazione, sostenendo che “c’è spazio per tutti su questa nostra terra: su di essa l’intera famiglia umana deve trovare le risorse necessarie per vivere dignitosamente, con l’aiuto della natura stessa, dono di Dio ai suoi figli, e con l’impegno del proprio lavoro e della propria inventiva. Dobbiamo però avvertire come dovere gravissimo quello di consegnare la terra alle nuove generazioni in uno stato tale che anch’esse possano degnamente abitarla e ulteriormente coltivarla”.[8] Si noti che l’impegno non consiste nel consegnare la terra alle nuove generazioni così come l’abbiamo ricevuta noi, ossia intatta, ma convenientemente trasformata, perché anch’essi possano a loro volta trasformarla.